Vita di provincia e la condizione delle donne asiatiche: Far East Film Festival 22

di Mariachiara Leone

La rassegna cinematografica di Udine che porta l’arte asiatica di “fare film” al variegato pubblico italiano.

Una delle caratteristiche del Far East Film Festival di Udine è quello di alternare pellicole “leggere” come commedie romantiche, horror, thriller con film denuncia, documentari, biografie che portano a galla criticità e problemi che molto spesso vengono coperti da uno spesso strato di “zucchero e purezza”.

A queste ultime categorie appartengono i tre film: Changfeng town, Victim(s) e Kim Ji-Young, Born 1982.

-Wang Jing (II), regista di “Changfeng Town”

-Layla Zhuqing Ji, regista di “Victim(s)

-Kim Do Young, regista di “Kim Ji-Young, Born 1982”

CHANGFENG TOWN

Chengfeng town è un film del 2019 della regista cinese Wang Jin. Prima della proiezione un breve video di Wang Jin spiega al fruitore l’intento del film e cioè quello di raccontare attraverso gli occhi ancora infantili di un gruppo di ragazzi, le vicissitudini ed il “detto non detto” di una piccola comunità di provincia della campagna cinese. Un paesino fittizio dove lo spettatore si trova immerso all’interno delle dinamiche familiari di una comunità di fatto abbastanza isolata, nella quale l’arrivo dell’unico dentista del paese comporterà una serie di situazioni che innescherà l’escalation ed il brusco risveglio della verità.

“A Changfeng Town ogni cittadino ha una storia. Un gruppo di ragazzini vive le proprie scoprendo, dietro l’incanto dell’infanzia, la durezza della vita”

A colpire fortemente lo spettatore è soprattutto la figura del leader del gruppo di ragazzini intento a far la corte alla ragazza del botteghino del piccolo cinema del paese.

Sotto il profilo artistico alcune scene, soprattutto quelle che si svolgono all’interno del cinema e all’interno dell’ambulatorio dentistico sono meravigliose. Il gioco poi che il regista compie sull’oggetto della dentiera che appartiene alla parte del corpo umano che è la bocca, dalla quale scaturiscono pettegolezzi e cattiverie quanto benevolenza e idee, è sapientemente calibrato e reso quasi surreale tanto quanto un’opera di Dalì.

Importante elemento che caratterizza il film è anche la “scomparsa”, quella fisica e poi emotiva di uno dei ragazzi, che svela retroscena della rete di famiglie che compongono la comunità e che porta inevitabilmente al finale del film. Anche in questo caso si ricorre ad un “simbolo” ossia il melograno.

VICTIM(S)

In Asia le problematiche relative alla fascia adolescenziale sono soprattutto il forte livello di suicidi dovuti a depressione, forte stress psicologico, dissociazione dovuta all’uso compulsivo dei social ed il forte distacco tra genitori e figli.

“Un dramma pulsante che sa raccontare il bullismo, la vita dei ragazzi sui social, il distacco tra il mondo dei figli e quello dei genitori”

Tutto questo viene affrontato con delicatezza e forza nella pellicola Victim(s), film 2020 della regista malesiana Layla Ji. Oltre ai temi sopracitati il film si concentra in particolare sul rapporto tra due madri di due ragazzi vittima di bullismo scolastico e di un tema cocente in Asia e cioè il coming out.

Vittima/vittime questo il titolo che è di per sé già un focus sul messaggio che la regista vuole imprimere nello spettatore.

Vittima è il ragazzo che perde la vita e di cui seguiamo a ritroso la vita, le azioni tutt’altro che innocenti. Vittima è la madre del ragazzo deceduto, che percorre, in una spirale di sofferenza, la difficile realtà di non aver mai conosciuto il figlio fino in fondo.

Vittima è la madre del ragazzo accusato di assassinio ed il ragazzo stesso, vittima a sua volta di bullismo. Vittima è anche una ragazza fortemente collegata al ragazzo accusato di aver ucciso il compagno di scuola, anch’essa vittima delle sue compagne di classe di atti crudeli e inumani.

In tutto questo buco nero che risucchia ogni cosa verso azioni che portano alla situazione iniziale e la scena che apre il film, prepotentemente si descrive la lontananza fisica ed emotiva tra genitori e figli. La mancanza di attenzione dovuta alla condizione lavorativa fortemente stressante degli adulti, fatta di ore piccole in azienda, responsabilità verso i datori di lavoro, il costante pensiero di portare “il pane a casa” che di fatto porta gli adulti fuori dalla realtà quotidiana dei figli adolescenti.

Importante è il finale di una bellezza straziante. Una piccola luce lanciata dalla regista su tutto l’oblio raccontato.

KIM JI-YOUNG, BORN 1982

“Kim, una madre dedita alla famiglia, sembra posseduta da altre personalità. Il racconto dell’asfissiante banalità del male nella discriminazione di genere”

Questo è forse il film più interessante sul ruolo della donna all’interno della società sud coreana proposto all’interno della rassegna cinematografica udinese.

Seguiamo la vita di Ji-young e di tutte le persone a lei collegate. In particolare ci addentriamo nei vari ruoli sociali che la definiscono ed inquadrano. Ji-young è madre. Ji-young è moglie. Ji-young è figlia. Ji-young è sorella. Ji-young è una donna in carriera (almeno fino a quando non subentra la maternità).

La cosa che colpisce di più e che Ji-young esista all’interno di queste etichette ma se si esula da tutto ciò, se la si spoglia di tutti i ruoli di cui è investita, essa non è altro che una donna persa, sola e non compresa. Vorrebbe lavorare ed essere una buona madre allo stesso tempo ma sembra che in una società perfettamente organizzata e soprattutto ancora fortemente sessista, questo non può avvenire. Ecco allora che allo spettatore vengono presentati altri personaggi femminili alle prese con il bivio obbligato dell’essere o l’una o l’altra “donna”.  Carriera o vita sentimentale. Lavoro o famiglia. Una dualità continua che fa arrabbiare, che è sconcertante e purtroppo ancora attuale in Sud Corea.

Ji-young viene costantemente messa sotto pressione. Continuamente di fronte a delle scelte. Stress che si accumula a tal punto da portarla verso uno stato dissociativo. Il film si sviluppa a ritroso per cercare di capire a che punto della vita di Ji-young sia precipitato tutto. In quale punto, quale scelta l’ha portata ad essere la donna che viene presentata all’inizio del film.

Un personaggio che sembra marginale ma che è fondamentale per la protagonista è il marito. Marito che cerca di aiutarla e allo stesso tempo è intrappolato negli schemi sociali. Spinge affinché la moglie veda uno specialista a cui lui in primis decide di rivolgersi. Seguiamo quindi il suo inconsapevole percorso terapeutico verso il raggiungimento della donna che ama e che sembra scivolargli dalle dita.

Il viaggio che compirà Ji-young per ritrovarsi la condurrà al suo sogno adolescenziale ossia voler diventare una scrittrice. Scrittura che sarà la sua vera ancora di salvezza. Ancora caratterizzata dalla penna che all’inizio del film getta in un bicchiere d’acqua (metafora del suo non riuscire a respirare, affogare nel grigiore della rigidità sociale) e che riprenderà, aiutata finalmente dalla figura della psichiatra, per non lasciarla andare. Per arrivare finalmente alla comprensione totale di ciò che realmente ha lasciato indietro: sé stessa.

Ecco allora che la penna non più nel bicchiere d’acqua ma sulla scrivania, non è altro che Ji-young che spogliata da ruoli, paure, responsabilità e finalmente aiutata dal marito, dai familiari, riesce ad emergere e respirare.

Lei è Kim Ji-young ed è nata nel 1982…

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