di Giancarlo Di Stadio
Giappone mainstream: solo su Italia Uno!? La storia dei prodotti pop giapponesi resi famosi in Italia dalla Mediaset.
Per capire i prodotti mediatici giapponesi devi prima capire il Giappone.
Ricordo ancora quando per la prima volta vidi One Piece in streaming SUB-ITA su internet.
Abituato al doppiaggio e all’adattamento italiano, con quel fastidiosissimo Rubber al posto di Rufy/Luffy, oltre al “criminale” taglio della D. dal nome, la curiosità lasciò presto il posto allo stupore e lo stupore lasciò presto il posto ad un quasi liberatorio “che mi sono perso!”.
Da quel momento in poi è stato tutto un recupero di Manga (e soprattutto Anime) in versione originale.
Inutile dire che la tanto abusata frase “devi vedere un prodotto in lingua originale!” è, almeno in questo caso, vera.
Se con i prodotti occidentali (che spesso di riducono a quelli anglo-americani) si tratta perlopiù di una sfumatura linguistica che aiuta capire magari meglio il senso di alcune battute e di alcuni dialoghi, con le opere giapponesi la cosa sfocia spesso nel culturale.
E nel “rispetto” per una determinata visione del mondo, diversa, e non per questo migliore o peggiore, rispetto al mondo occidentale.
Partiamo da un problema, enorme: in Italia la storia dei prodotti di intrattenimento giapponesi ha sempre vissuto su di una gigantesca ambiguità. Essi nel Bel Paese sono arrivati inizialmente sulle tv locali e private.
E fin qui nulla di male, a parte la scarsa qualità del doppiaggio.
Ma visti i budget risicati con i quali le tv locali dovevano spesso fare i conti, possiamo soprassedere.
Il problema grosso è sorto quando sono stati acquistati anche dalla tv commerciale nazionale.
I dirigenti prima di Mediaset e poi anche della Rai hanno, fin da subito, considerato gli Anime (perché in questa prima fase si parla essenzialmente di Anime) come un prodotto per bambini.
E di conseguenza via con i tagli e gli adattamenti.
Niente di più sbagliato. Esistono Anime per bambini, ma esistono anche, e sono la maggior parte di quelli che sono arrivati da noi, Anime per ragazzi, per giovani e addirittura per adulti.
La stragrande maggioranza dei prodotti televisivi della nostra infanzia, da Dragon Ball fino a Ken il Guerriero, non erano mai stati pensati per un pubblico in età pre-scolare.
Ma per un pubblico di ragazzi e di adolescenti, se non anche per un pubblico pienamente adulto.
È normale conseguenza che le tematiche trattate, essendo spesso “adulte”, abbiano subito un processo di adattamento se non di aperta censura pur di essere fruibili per un pubblico di bambini.
Intere scene eliminate, interi dialoghi stravolti. Tutto per rendere un prodotto, pensato per un target “A”, adatto (e vendibile) ad un target “B”.
Ma c’è un altro punto estremamente importante quando si tratta di Manga e Anime.
Con internet la disponibilità dei prodotti in versione originale è alla portata di tutti, si bypassa quindi il problema dell’adattamento.
Anime, Manga, film, serie tv, videogiochi. Basta una semplice googlata e hai il mondo dell’intrattenimento a disposizione.
Ecco che quindi ci troviamo di fronte ad un altro tema interessante quando si parla di prodotti giapponesi: il sistema culturale e valoriale nel quale sono stati pensati.
Prendiamo un qualsiasi Anime giapponese.
Anche lo sguardo meno attento non rifugge dal fatto che esso sia impregnato di alcuni concetti culturali che a noi possono sembrare strani, ma che nella cultura nipponica sono perfettamente normali.
L’onore, l’estrema fedeltà ad un capo o ad un principio, l’etica sopra il guadagno, i rapporti uomo-donna o figlio-genitore.
Tutte cose che a noi occidentali, soprattutto dopo che la cultura liberal-capitalista ha monopolizzato temi e argomenti, sembrano strane.
Un sacrificio in nome di una fedeltà astratta e non dietro un compenso materiale e utilitaristico; una “venerazione” quasi anacronistica per la figura maschile e patriarcale, in luogo della macchiettistica riduzione a “scemo e cattivo” sull’altare del Girl Power™ tanto caro ai liberal occidentali; il rispetto per i genitori e per l’autorità invece che il senso onnipresente di ribellione indefinita, spesso senza fine e senza scopo, nei confronti dell’autorità paterna (o materna) in nome di una non meglio identificata libertà individuale suprema; semplicemente l’esaltazione del sacrificio collettivo invece che l’elevazione del guadagno individuale quale unico fine logico percorribile.
Sono alcuni dei temi ricorrenti nelle opere giapponesi, anche moderne, che risultano strane per un pubblico occidentale ormai abituato e forse assuefatto ad una determinata stereotipizzazione di personaggi e situazioni.
Negli anni ‘70 e ‘80 il Giappone attirava in quanto nei suoi Anime, da noi per lungo tempo erroneamente inseriti nel calderone lessicale disneyano dei “cartoni”, c’erano cose come violenza, combattimenti, temi adulti.
Cose che i cartoni occidentali, considerati prodotto per bambini, non mettevano in mostra. O che comunque nascondevano bene attraverso allegorizzazioni ben pensate.
Vedo Ken il Guerriero anche perché ci sono cose che non posso vedere in Biancaneve.
Oggi il Giappone sembra invece attirare anche per un diversità culturale rispetto ai canoni occidentali.
Non si tratta solo di contenuti, ma anche di temi.
Oggi giorno, di fronte ad un appiattimento contenutistico occidentale, preoccupato più dal come mostrare che dal cosa mostrare, il Giappone (ma con esso tutta l’Asia, Corea del Sud e Cina in testa) torna a fare la parte del leone sul fronte della cultura e dell’intrattenimento.
Vedo One Piece anche perché ci sono temi e valori che non posso trovare nell’ennesimo prodotto Disney/Netflix, troppo impegnato a non scontentare nessuno per cercare di raccontare qualcosa che vada oltre le stra-abusate 2-3 situazioni ormai tipiche dell’intrattenimento occidentale.
Scevri da isterismi e da “caccia alla streghe” modaiole, gelosi della loro particolarità culturale, i giapponesi sembrano essere riusciti paradossalmente a rinnovarsi pur non rinunciando a temi e valori della loro cultura.
Laddove invece l’Occidente, nell’ossessiva rincorsa a temi “nuovi” (leggasi: vendibili ad un target alto-spendente e poco esigente a livello di qualità), sembra non riuscire a partorire alcuna novità, limitandosi a dare una smaltata di rosa, nero, arcobaleno a film e prodotti che hanno già abbondantemente detto la loro.
Esemplificativo è tutto il fenomeno dei reboot e dei remake, o di serie che si trascinano stancamente oltre il dovuto solo perché il brand tira ancora.
E se i vicini coreani puntano sulle serie tv e i cugini cinesi cercano di strafare con il cinema, i giapponesi continuano a puntare forte su due storici cavalli di battaglia: l’animazione e il videogioco.
I Manga/Anime stanno vivendo una nuova giovinezza e ormai, superata quella fase in cui erano considerati prodotti “per bambini”, stanno finalmente trovando anche in Occidente i giusti riconoscimenti.
Dall’altro lato la Sony e soprattutto la Nintendo, continuano a tenere botta nel mercato videoludico, sfornando decine di titoli di altissimo livello.
Arrivando anche a contaminare, con temi e ambientazioni, la produzione occidentale, vedi il caso di Ghost of Tsushima.
E la stessa americanissima Microsoft sta allargando il suo catalogo con moltissimi prodotti made in Japan con l’arrivo dell’intera serie Yakuza sul Game Pass.
Insomma, se dobbiamo pensare alla storia dell’intrattenimento, possiamo accorgerci di come 50 anni fa esso era dominato da cinque blocchi “culturali”: quello hollywoodiano, quello europeo, quello indiano, quello russo-sovietico e quello giapponese.
Caduto quello russo-sovietico, ancora alla ricerca di un modo per reinserirsi nel giro, e fagocitato quello europeo, ormai a tutti gli effetti costola, per temi, personaggi e valori, di quello americano, dei tre blocchi rimasti, di fronte all’avanzata di nuovi blocchi “culturali” (quello africano, quello cinese, quello coreano), il blocco giapponese sembra essere quello che se la passa meglio.
Capace di tenere saldo il timone, sia a livello di temi che di contenuti, il Giappone continua a produrre prodotti particolari e di qualità.
Una manna dal cielo per un pubblico occidentale sempre più insofferente verso gli -ismi hollywoodiani e alla spasmodica ricerca di contenuti innovativi e di qualità.
In tal senso il Giappone rappresenta l’usato sicuro, quel caro vecchio posto che non ha mai smesso di fare del buon sushi, mentre la pizzeria sotto casa, per correre dietro a target alto-spendenti e di poche pretese qualitative, ha finito per mettere l’ananas sulla pizza.