di Mariachiara Leone
La postfazione di Mario Fortunato, curatore del volume “Beijing story”, di Tongzhi, edito per Nottetempo edizioni, fa comprendere che grande ricchezza rappresenta per il lettore il lavoro delle case editrici indipendenti.
Il “caso” di Beijing story lo è non solo per il testo in sé e la storia che vi è celata ma anche e soprattutto perché rappresenta un “caso” editoriale tutto italiano.
Riportare per intero la nota a fine romanzo di Mario Fortunato, fa comprendere a pieno non solo che grande romanzo sia “Beijing story” ma anche l’enorme ricchezza rappresenta dal lavoro di traduttori, editori, grafici e “addetti ai lavori” che rendono preziosissimo il circuito editoriale indipendente italiano.
Editoria indipendente che appunto permette al lettore di avere nella propria libreria, leggere ed amare, opere tra cui appunto “Beijing story”.
“Il racconto che avete appena letto ha molti elementi di eccezionalità. Innanzitutto è una “internet novel”: vuol dire che il libro, come oggetto materiale, non c’è mai stato prima di questa edizione italiana.
Beijing story è comparso in cinese su alcuni siti, in tal modo sfuggendo alla censura di Stato, e qualche tempo dopo è stato tradotto in inglese americano, ma sempre e soltanto vedendo la luce sul web. La versione che compare qui, naturalmente, è dall’originale cinese.
Beijing story non ha un autore. O meglio, chi ha scritto il romanzo è stato costretto finora all’anonimato.
Il motivo è semplice. Si tratta di una storia evidentemente autobiografica, scritta da un giovane uomo di successo: quello che nel mondo occidentale potremmo definire un manager parecchio rampante. Quest’uomo, abituato a comprare tutto ciò che gli serve- anche l’amore di chi non lo ama- perde la testa per un giovane prostituto, un ragazzo timido, un po’scontroso, la cui bellezza silenziosa e assorta è come l’anagramma della propria incapacità di stare al mondo.
Il racconto vira subito nel mélo puro. I due protagonisti si amano fisicamente come due animali braccati, litigano, si rinfacciano debolezze e contraddizioni, sullo sfondo di una Pechino scura, umbratile, che esploderà nella protesta studentesca di piazza Tien’anmen. L’io narrante, il trentenne capitano d’industria innamorato di Lan Yu (il piccolo provinciale che non si piega alla logica di denaro e potere), tenta come può di combattere i suoi stessi sentimenti: si ripete che l’omosessualità è una stortura, a un certo punto si sposa per divorziare subito dopo, allontana il ragazzo che invece lo ama di un amore semplice e arreso all’evidenza.
Finirà, l’io narrante, con lo sposarsi nuovamente e avere figli, coltivando la convinzione, che, se l’eros gay non ha ancora conquistato e mai conquisterà un posto nell’ordine naturale delle cose, quel posto sarà proibito anche a lui: la sua esistenza sarà insomma condannata al silenzio e alla negazione. In una parola: al disamore.
Lan Yu al contrario non si pone e non pone grandi questioni. È un ragazzo. In lui c’è l’impazienza della vita: non si chiede se l’omosessualità sia una deviazione- come prescrive la morale del Partito Comunista Cinese e in genere di tutti quelli che devono imporre le proprie idee agli altri. Non si nasconde come l’io narrante, ma a propria esperienza non vuole o non sa fare una bandiera. La sua vita privata non è segreta è privata, appunto.
C’è molto sesso, nelle pagine che avete appena letto. E forse anche per questo motivo l’autore ha dovuto rimanere anonimo. Non sappiamo nulla di lui: nulla più di quanto egli stesso abbia scritto. Oggi vive in Canada a Vancouver, ci dice: ma sarà vero o si tratta di una notizia data per depistare? C’è molto sesso, in queste pagine, ma guai a considerare Beijing story un romanzo erotico. Mai come in queste pagine il sesso ha una pura funzione fàtica: l’autore non fa che chiederci attenzione, ma ciò che vuole comunicare non è la bellezza o la forza dell’eros omosessuale, bensì la fragilità e la contraddittorietà dei sentimenti che esso talvolta scatena.
Non escludo infine che qualche amante del politically correct possa inclinare a leggere questo romanzo come un documento amaro e infelice dell’arretratezza culturale della Cina odierna. Sì certo, c’è anche questo. Come c’è l’accenno ai fatti di piazza Tien’anmen e alla drammatica repressione che seguì, esattamente vent’anni fa. Ma vorrei dire che un romanzo è prima di tutto ciò che è: un romanzo.
Non un saggio, non una foto della realtà né un atto d’accusa. O forse è tutto questo insieme, ma solo perché non pretende di spiegare né di giudicare. Beijing story racconta solo una storia: è come il pezzetto di uno specchio infranto, trovato per caso su quell’immensa spiaggia che è internet. In quel frammento però c’è un bagliore che acceca”.