di Giancarlo Di Stadio
The Witcher, la dimostrazione che il fantasy su Netflix può essere ben fatto. Ma quanto è merito della “N-rossa”?
Ogni volta che approcciamo ad un serie Netflix dobbiamo tenere a mente un paio di cose.
La prima è che, causa modello di produzione-distribuzione (che sviscereremo in un altro articolo più approfondito), qualsiasi serie, soprattutto se di nicchia (The OA, coff coff), è a rischio cancellazione da un momento all’altro.
La seconda è che la serie deve essere valutata al di là delle esagerazioni “alla Netflix”.
Ormai sappiamo tutti, ed è inutile arrabbiarsi sempre, che una serie originale Netflix è un pacchetto all-inclusive in cui ti troverai certamente, sicuro come la morte, black-washing, pink-washing, blind-casting, tematiche femministe inserite senza alcun senso logico, sovra-rappresentazione di gruppi etnici e orientamenti sessuali totalmente slegati dalla trama, anacronistici e fuori contesto, ecc…
E’ come andare al Burger King e lamentarsi che i cibi sono troppo calorici. Bisogna valutare il panino di Burger King tenendo conto che tale panino è e sarà sempre calorico.
Così bisogna valutare una serie Netflix: tenendo conto che, per ragioni di immagine, target, ecc… nelle più becere logiche del woke-capitalism, tali cose ci sono e ci saranno sempre.
Almeno fino a quando o non cambia il target di Netflix o non cambia il ritorno, economico e di immagine, di tali scelte.
Questo secondo punto in particolare ci serve tenerlo bene a mente, perché altrimenti ogni analisi su di una serie Netflix finirà inevitabilmente ad una “reductio ad blind-casting”.
In questo articolo infatti parliamo di fantasy e di Netflix. Togliamoci subito il dente avvelenato: Cursed e la Luna Nera.
Sono due cacate, forse tra le serie peggiori che macchina da presa abbia mai girato.
E lo sono al netto del femminismo spiccio, degli anacronismi, dell’inserimento forzato di temi fuori contesto, ecc… insomma al netto di quanto presente nel citato pacchetto all-inclusive. Sono fatte proprio male. Scritte male, girate male, recitate male.
Però, accanto alle suddette cacate, Netflix è stata in grado di proporre, sempre sul versante fantasy, anche qualche piccolo gioiellino: The Witcher.
Per chi ha letto i libri e giocato alla trasposizione videoludica di CDPR, vi invito a passare sopra, ecco che prende senso il discorso del panino di Burger King, al blind-casting.
Perché se depuriamo la serie di queste esagerazioni “alla Netflix”, viene fuori una gran bella serie.
Uno dei pochi prodotti originali, in un mare di Bridgerton e Winx, con una trama coerente, con personaggi ben sviluppati, con dialoghi con profondità e senso logico.
The Witcher è la dimostrazione che il fantasy di qualità su Netflix è possibile.
Che è qualcosa che va oltre la, parafrasiamo il maestro Renè Ferretti, “mamma mia, la monnezza che ho fatto” di Cursed o de La Luna Nera. Certo, avere nel cast un attore del calibro di Henry Cavill aiuta e non poco.
Ma dietro è comunque visibile un lavoro a tratti anche minuzioso, capace di replicare al meglio sullo schermo la complessa lore del mondo partorito dalla fertile penna di Andrzej Sapkowski.
Certo, magari chi si è avvicinato alla saga con i videogiochi e non con i libri può appunto storcere un po’ il naso su determinate scelte e personaggi.
Ma non può negare che è una serie che coinvolge, che ti spinge al binge-watching e, cosa non secondaria per un fantasy, ad approfondire la lore, a capire di più sul mondo, sui regni, sulle connessione che animano lo svolgimento della trama di The Witcher.
A ritrovarti alle tre di notte su internet a leggere di più su quel regno o su quel personaggio.
Ora il punto è: dove iniziano i meriti di Netflix e dove finiscono i meriti del libro originale?
Certamente utilizzare un libro di partenza con basi solide, un mondo coerente, una trama avvincente e personaggi ben scritti è facile per Netflix.
Abbiamo visto come spesso la N-rossa si trovi in palese difficoltà quando deve creare ex-novo, cadendo spesso vittima della propria “bolla”, portando in scena personaggi e trame che piacciono alla “torre d’avorio” degli sceneggiatori, ma che appaiono forzate o vuote al grande pubblico.
A parte ottime caratterizzazioni, ad esempio i personaggi di Narcos, Netflix ha sempre avuto difficoltà a gestire la creazione ex-novo di personaggi senza cadere in banali stereotipi narrativi, spesso al limite del Mary-Sue e Gary-Sue. Così come le trame, impregnate di McGuffin palesi e fastidiosi che causano la sospensione dell’incredulità.
In tal senso poter usufruire di personaggi come Geralt o Yennefer già caratterizzati e presenti nell’immaginario collettivo con le loro caratteristiche, forze e debolezze, aiuta molto.
Così come aiuta molto avere una trama coerente che conduce ad un finale non forzato.
D’altro canto non bisogna comunque non sottolineare i meriti della produzione che, al netto di alcuni errori (come le armature nilfgaardiane), è riuscita a trasporre su schermo un prodotto di valore.
Forse non al livello della trasposizione videoludica, la quale è stata foriera del successo della saga, ma certamente superiore ad altri prodotti originali Netflix.
L’impressione resta quindi sempre ancorata all’idea che Netflix abbia una grande capacità di mostrare, ma forse poca capacità di creare e raccontare.
Se alla base c’è un prodotto solido, altro esempio è La Regina degli Scacchi, allora Netflix sembra essere in grado di trasporlo in maniera efficace.
Se invece il prodotto originale manca di tale solidità o comunque tale mancanza risulta ben mascherata dal mezzo letterario, Netflix finisce solo per esacerbare tali problemi.