di Giancarlo Di Stadio
Bollywood vs Hollywood: India vs gli States. Il mondo dello spettacolo indiano e quello americano. In cosa sono simili ed in cosa differiscono?
Spesso, nella nostra visione estremamente euro-centrica/anglo-centrica, quando pensiamo ad opere di intrattenimento, siano esse film, serie tv, videogiochi, canzoni, la nostra mente vola in primis ad opere occidentali dove la parola “occidentali” è intesa come un’estensione degli Stati Uniti.
Così, se pensiamo ai film, subito associamo essi ad Hollywood e ad un determinato tipo di pellicole che ricalcano lo stile americano.
“Colpa” di un bombardamento mediatico che, fin da piccoli, ci mette davanti ad una sproporzione di offerta totalmente sbilanciata nei confronti dei prodotti nati nella terra di Topolino.
Le più grandi major dell’intrattenimento sono statunitensi.
E naturalmente, nelle loro opere, veicolano il sistema valoriale statunitense, il quale, e questa è una delle nostre colpe capitali, ha ormai finito per sovrapporsi, nell’immaginario collettivo, anche ai pre-esistenti sistemi valoriali europei.
Così ci troviamo davanti al paradosso per il quale “scuole di intrattenimento” come quella italiana o quella francese, che in passato erano state capaci di produrre ad esempio il Neorealismo o la Nouvelle Vague, debbano, per accontentare i gusti di un pubblico ormai appiattito, inseguire il “modello americano”, utilizzando trame, archetipi e stereotipi ormai abusati oltreoceano.
A dire il vero l’intero intrattenimento occidentale si base su due capisaldi (con buona pace di woke e liberal californiani bramosi di cancel culture): Iliade e Odissea.
E’ difficile trovare un’opera occidentale, sia essa europea o americana che, a grandi linee, non ricalchi anche solo in parte lo schema di queste due opere “originarie”.
La sostanziale base culturale comune, assieme ad un gretto discorso sui soldi e le possibilità di investimento, ha fatto si che l’immaginario dell’intrattenimento occidentale fosse monopolizzato dal made in USA.
Per Hollywood è stato facile colonizzare l’intrattenimento europeo.
Ma ciò ha comunque generato insofferenze, soprattutto negli ultimi tempi.
Perché se nel dopoguerra tale “monopolio dell’intrattenimento” non si era ancora totalmente realizzato; negli anni ‘70 la New Hollywood rappresentava comunque un accettabilissimo intrattenimento di qualità e negli ‘80-’90 il reaganismo di Rocky IV una bella alternativa divertente e caciarona; negli ultimi anni il piattume di idee, basti pensare alla caterva di reboot/remake, e l’ossessione sfacciata per la politicizzazione in senso liberal di trame, personaggi e caratterizzazioni, ha spinto molti spettatori a guardare anche oltre la Cortina di Ferro dell’intrattenimento.
Al fine di trovare semplicemente roba meno banale.
Ad aiutare ci si è messa anche la tecnologia.
Solo qualche decennio fa l’unico intrattenimento di cui si poteva disporre era quello che passavano la TV, pubblica o commerciale, e i cinema.
Lo stesso fenomeno dei manga e degli anime, il primo vero consumo mediale non-occidentale di massa, è stato per molto tempo relegato all’intraprendenza degli appassionati.
Ed anche oggi spesso per usufruire di prodotti giapponesi non adattati bisogna ricorrere a vie traverse.
Così, mentre l’occidente prima assisteva a capolavori come il Padrino, Taxi Driver, Arancia Meccanica, poi si dilettava in caciaronate alla Rambo e infine iniziava a maledire l’annuncio dell’ennesimo reboot al femminile o l’ennesimo race-swap, preannunciato flop al botteghino, che farà da apripista a mesi di polemiche su: “è il pubblico razzista, sessista, fascista, ecc… o semplicemente è Hollywood che ormai è senza idee?”, in altre parti del mondo l’intrattenimento iniziava ad apparire un’alternativa tranquillamente esportabile anche in occidente.
Mettendo per un attimo da parte il Giappone, la cui cultura dell’intrattenimento ormai è di casa, recentemente due “blocchi geopolitici dell’intrattenimento”, passatemi il termine, stanno salendo agli onori della cronaca: la Corea e l’India.
I coreani ultimamente sfornano diverse serie di ottimo livello.
E anche i film, come dimostra Parasite, ormai non hanno nulla da invidiare alle controparti occidentali.
La storia dell’intrattenimento indiano è invece più lunga e complessa. Non inizia certo ieri, anche se negli ultimi anni è in atto una scoperta (o riscoperta) delle loro opere.
Se l’America ha Hollywood, l’India ha Bollywood (una fusione di Bombay e Hollywood).
A differenza di altri filoni cinematografici, Bollywood è interessante perché non costituisce solo un genere, ma uno specifico contesto di produzione e distribuzione, che si intreccia in modo pervasivo con quella che è la società indiana, le sue particolarità e la sua mentalità.
Se Hollywood è intimamente legata all’ideologia americana e alla sua evoluzione: il mito della frontiera, il cinema di guerra, il trauma del Vietnam, il way-of-life neoliberista raeganiano e più recentemente la mentalità woke e l’ossessione per il politicamente corretto; anche Bollywood è intimamente legata all’ideologia indiana. E anche al suo rapporto con l’occidente.
Chiariamo una cosa: anche se potrebbe sembrare così, Bollywood =/= cinema indiano, come d’altronde Hollywood =/= cinema occidentale. Bollywood è una parte, pervasiva, caratterizzata da alcuni archetipi e da alcuni stereotipi, del cinema indiano, ma non è la sua totalità.
E’ in ogni caso la parte più nazional-popolare, più celebre, più vista e più esportata.
Per questo più interessante da poter utilizzare come confronto.
La prima cosa che viene in mente quando si pensa a Bollywood sono le musiche e le danze. Ed è vero. Nel cinema di Bollywood esse hanno un ruolo centrale, finanche fondamentale, per la struttura del film.
E qui dobbiamo tornare all’Iliade e all’Odissea.
Già, perché se il nostro racconto si basa essenzialmente sulla trasmissione orale, quindi sul racconto di una storia, quello indiano si basa sulla trasmissione attraverso la musica e le danze.
Il ruolo che in occidente è assunto dal racconto davanti al focolare, in India è assunto dalle grandi danze collettive.
Ecco che il canto e la danza non possono essere considerate solo una parte del film, ma il film stesso. Depauperare un film bollywoodiano dei canti e delle danze è come depauperare un film occidentale del “viaggio dell’eroe”.
Altra considerazione, spesso errata e che si collega alla precedente, è che i film indiani siano solo musica e danze. E che lo siano sempre stati.
Niente di più sbagliato. Come in occidente anche in India il cinema ha seguito i cambiamenti sociali del paese.
Il canto e la danza sono rimaste preponderanti, ma attorno ad esse sono cambiate le trame, le caratterizzazioni, i messaggi e il sistema valoriale.
Se all’inizio il cinema indiano risentì molto di influssi europei (ricordiamo che l’India all’epoca era una colonia inglese), con l’indipendenza e la conseguente drammatica divisione del paese tra induisti e musulmani, il cinema indiano ha iniziato ad assumere caratteristiche proprie.
Come sempre il modo migliore per capire tali caratteristiche è analizzarne le trame e la caratterizzazione dei personaggi in relazione alle vicende socio-politiche del paese.
Tra gli anni ‘40 e ‘60, il paese vive un momento di cambiamento: l’indipendenza, la modernizzazione, le guerre indo-pakistane, i contrasti tra una cultura conservatrice e un’aspirazione progressista.
Tutto questo crea un sottobosco estremamente fertile per il cinema. Questi anni sono infatti considerati l’epoca d’oro.
È l’epoca del divismo, soprattutto femminile, della fiducia nel futuro dopo l’indipendenza, della voglia di affermare la propria identità, la certezza che il mondo abbia un posto anche per l’India.
Tutte cose che termineranno poco dopo.
L’indipendenza del paese non risolve i problemi, anzi li esaspera.
E lo sguardo femminile ingenuo e speranzoso delle Dive lascia il posto alla disillusione e la voglia di cambiamento e ascesa sociale.
Così la Diva viene piano piano sostituita dal ragazzo ribelle, dall’antieroe di periferia che, in una società ancora rigidamente divisa in caste, rappresenta il sogno del riscatto di fronte alla sfiducia complessiva per un sistema ingiusto ed ineguale.
Il potere è corrotto, ostile e l’eroe del cinema bollywoodiano degli anni ‘70 rappresenta la lotta contro di esso.
Siamo nel periodo di piena Guerra Fredda, il mondo è preda dello scontro tra due visioni contrapposte e tali influenze non lasciano il cinema indiano indifferente.
Il divismo perde definitivamente il posto di fronte alle contraddizioni e alla voglia di ribellione da parte di una gioventù che non riconosce come sua quella società e che vede nel cinema un moto di evasione e ribellione.
Un’epoca che dura fino agli anni ‘90, quando il riscatto sociale lascia il posto all’esaltazione dello status-quo.
La Guerra Fredda è finita, il capitalismo ha vinto, i ricchi hanno trionfato! E anche il cinema indiano si adegua.
Da rappresentazione di riscatto sociale, Bollywood diventa manifestazione del lusso e dell’autolegittimazione delle élite.
Il pubblico di riferimento è la classe medio-alta la quale è ansiosa (quella alta) o di vedersi rappresentata e giustificata nella sua opulenza, oppure bisognosa (quella media) di illudersi che il sistema prima o poi, se ti impegni e stai al tuo posto, ti possa far annusare quella vita.
Bollywood si occidentalizza, nelle trame e negli attori, i quali sono anche esteticamente scelti per rappresentare le classi elevate e il loro scimmiottamento dello stile occidentale.
Ma c’è anche un altro motivo: l’emigrazione.
La nuova Bollywood si rivolge anche e soprattutto agli indiani emigrati. Coloro che, dopo decenni in occidente, hanno iniziato ad introiettare un determinato sistema valoriale.
Dopo un primo momento di appiattimento però tale mercato estero finisce per riportare all’interno del cinema bollywoodiano il tema del contrasto.
L’emigrante indiano ha visto la vita occidentale da vicino, non come riflesso di semplice lusso delle élite. Non vede solo la parte “bella” dell’Occidenta, ma spesso vive in prima persona la parte “brutta”.
Dall’esaltazione, quasi acritica, del modo di vivere “all’occidentale” si sta passando al confronto tra tradizione e modernità, tra ciò che era l’India e ciò che vuole essere l’India.
Da un lato si torna a rappresentare famiglie numerose, abiti colorati, usi e costumi che sembrano fermi nel tempo.
Dall’altro però li si mette a confronto con i grigi completi dei manager indiani ormai occidentalizzati, i grattaceli di vetro dei centri direzionali delle megalopoli che svettano sui quartieri poveri e volutamente dimenticati.
Insomma la Bollywood recente mette in scena il contrasto tra un paese che cerca di occidentalizzarsi, ma che comunque inizia a nutrire timori sia per la perdita della propria identità sia per la “fuffa” che tale occidentalizzazione sta rivelando.
Il cinema diventa quindi ricerca e riscoperta di identità, comprensione che, dopo almeno due decenni di acritica ubriacatura occidentale, essa è in pericolo.
Che forse il gioco non vale la candela. E così il cinema bollywodiano comincia a difendere se stesso, le sue particolarità e torna a reclamare il suo posto nel mondo.
Consapevole che altrimenti rischia di diventare davvero la brutta copia, danzante e colorata, della decadente Hollywood dell’ultimo decennio.