di Mariachiara Leone
Sono molte le fascinazioni ma anche i dubbi e le perplessità su questo “nuovo modo di concepire l’arte e l’artista”.
Nel linguaggio dell’arte nulla nasce improvvisamente, e anche questa esplosione performativa, apparentemente improvvisa, tra gli anni sessanta e gli anni settanta, trova i suoi antecedenti nei decenni e negli anni precedenti.
Anche senza riandare alle serate futuriste, o alle azioni dadaiste di Hugo Ball e di Allan Kaprow, delle azioni del gruppo giapponese Gutai e, soprattutto, azioni di Yves Klein e di Piero Manzoni per comprendere facilmente come il soggetto/artista possa diventare anche oggetto/opera del suo fare: è la Body Art, l’arte del corpo, per cui l’artista usa il proprio corpo – talvolta quello altrui – come opera, come materia su cui agire.
Shozo Shimamoto, “Bottle Crash”, Punta Campanella – 2008 (Fonte: Artribune.com)
Il corpo è sempre stato uno degli “oggetti” privilegiati dell’arte ma nel caso della Body Art il filtro della tela e della rappresentazione su di essa non c’è e l’arte diventa pura azione irripetibile che scaturisce emozioni forti ed uniche, non replicabile nonostante si ripeta la performance.
La Performance art è appunto strettamente correlata alla Body Art.
Tutte le azioni, infatti, che prevedono l’azione del corpo o di persone – compresi dunque Happening e Body Art – vanno oggi sotto una unica definizione di “performance”.
Yves Klein, “Anthropometry” performance, Paris, 27 febbraio 1960 (Fonte: simonamaggiorelli.com)
In tal senso decisivo è stato ed è il lavoro dell’artista, considerata “madre” della Performance Art, Marina Abramovic.
Marina Abramović fotografata da René Habermacher (Fonte: Artribune.com)
A lei si deve la stesura del Manifesto dell’artista ma soprattutto il punto centrale della discussione odierna sull’arte performativa che, se alla sua nascita era un’azione concreta e visibile contro secoli d’interdizioni sessuali, oggi deve porre l’accento sull’efficacia e la semplicità di certe azioni sul registro degli impulsi più profondi della psiche umana.
Performance “The art is present” tenutasi presso il Guggenheim di New York nel 2012 (Fonte: dartema.com)
A quella che ad oggi è la performer internazionale più famosa che tende ad esplorare il corpo sino alle estreme conseguenze vanno affiancati tutta una serie di artisti ed artiste che esplorano il rapporto tra sé e il mondo e che sono meno citati e conosciuti di Marina.
Da Hermann Nitsch a Gina Pane, da Urs Lüthi a Rudolf Schwarzkogler, da Lucio Ontani a Cindy Sherman, solo per citarne alcuni, gli artisti/performer agiscono sulla materia più oscura di tutte: il “proprio” corpo.
Gina Pane, “Azione sentimentale” – 1973 (Fonte: artspecialday.com)
Corpo che attraversa i linguaggi dell’arte e diventa linguaggio esso stesso ma, come avviene per la danza e il teatro, si conclude nel suo farsi: ecco allora che intervengono gli strumenti di registrazione e dunque la Video Art.
Questa è però un’altra pagina di storia da approfondire, magari, la prossima volta…
Foto copertina: Barbara Cleveland, Performance Art, 2014 (Fonte: mca.com.au)
Fonte articolo: La biblioteca di Repubblica. La storia dell’arte vol 17