di Giancarlo Di Stadio
Tra film animato del 1998 e live action del 2019: una donna che ha salvato la Cina. Mulan ieri ed oggi.
Se c’è una costante nella filmografia blockbuster hollywoodiana degli ultimi 15 anni è quella della pessima caratterizzazione dei personaggi femminili, soprattutto se protagoniste.
Ricordate quando negli anni ‘80 c’era lo stereotipo del macho-man? Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger hanno costruito una carriera sopra al vado-ammazzo-torno.
Nella filmografia dell’ultimo periodo sembra che il problema della stereotipizzazione stia colpendo invece soprattutto i personaggi femminili.
Naturalmente non si tratta di macho-lady, anche se in alcuni casi la deriva è quella, ma di Mary-Sue.
Personaggi, per dirla senza anglicismi, a cui la sceneggiatura perdona tutto, che sono brave perché si, che sono positivizzate oltre il ridicolo, la cui crescita personale è limitata solo alla presa di coscienza di una superiorità già insita nel personaggio stesso.
Scordatevi Ellen Ripley, Sarah Connor o Clarice Sterling, se vi è venuta in mente Rey di Star Wars non abbiamo bisogno di altre spiegazioni.
Il tutto, come ogni cosa ad Hollywood e nel mondo da quando l’uomo ha messo piede sulla terra, è imbevuta (ed è veicolo) di ideologia.
Se il macho-man degli anni ‘80 era inserito in un contesto raeganiano di apice della guerra fredda (Rambo III, Rocky IV, ecc…), con il John Rambo di turno che sponsorizzava i valori imperialisti e capitalisti in un modo “duro” e “machista”, a cui si affiancava l’immancabile la lotta al nemico di tali valori (in quel caso il comunismo), la marysuizzazione dei personaggi femminili è inserita in un contesto ideologico liberal e woke.
Con il “cattivo”, sempre sconfitto dal sistema valoriale dei “bravi”, che dal comunismo ha finito per essere il patriarcato, il machismo, la mascolinità tossica. Qualunque cosa essa significhi.
Il problema è che però il sistema valoriale in base al quale si decide chi è “bravo” non è affatto cambiato.
Il personaggio femminile moderno segue ormai, scusate la semplificazione, il mantra del “è brava perché è femmina”.
Si assume cioè l’essere femmina come valore positivo a priori.
Non però qualsiasi tipo di femmina, ma una femmina che si comporta in un determinato modo, cioè che si comporta in linea con il sistema di valori che quel prodotto vuole veicolare.
Occhio, perché dietro il femminismo di facciata e non di sostanza, quello tanto caro ai liberal e alla woke generation, si nasconde appunto sempre lo spaccio tanto al chilo del sistema valoriale liberal-capitalista americano.
È solo un modo di incartare in modo diverso la stessa torta.
Non c’è nel femminismo “moderno” (o liberal-femminismo) un sovvertimento del sistema valoriale di base che garantisce nuovi criteri di accesso al novero dei “bravi”, ma solo e soltanto, da parte di questo sistema valoriale, una cooptazione di una minoranza elitaria femminile, che già segue quei valori, all’interno dell’élite maschile dei “bravi” preesistente.
Insomma, nella frase è brava perché è femmina, il punto centrale non è nel “femmina” e nella sterile guerra tra sessi, ma nel sistema valoriale che definisce il “brava”.
La torta è quel sistema valoriale che definisce la bravura. Il “femmina” è solo l’incarto, un modo per vendere meglio tale sistema valoriale.
Per capire meglio possiamo prendere ad esempio tre versioni di una storia che, con i dovuti distinguo, può essere considerata femminista: Mulan.
E vedere come la versione animata del 1998, realizzata in un epoca in cui il femminismo non aveva assunto ancora deriva ideologica e soprattutto non era ancora totalmente ancella del liberal-capitalismo, sia nettamente più femminista di quello del 2019.
Disclaimer
Di fronte all’atomizzazione attuale del movimento femminista, che va dall’antisessismo fino all’aperta misantropia o transfobia, onde evitare fraintendimenti, utilizzeremo il termine “femminismo” per riferirci al movimento con connotazione antisessiste, paritarie e anti-capitaliste delle origini, e “liberal-femminismo” per riferirci alla deriva liberal del femminismo (quello mediaticamente più forte in questo momento) che ha ridotto tale movimento a puro e semplice gioco di potere tra “già privilegiati”.
A grandi linee la storia la sapete tutti: la Cina è in guerra con gli Unni, l’Imperatore arma l’esercito, ogni famiglia deve fornire un soldato, Mulan si finge uomo e prende il posto del padre, Mulan salva la Cina.
La storia però viene declinata in tre modi diversi a seconda dell’ideologia che in quel momento regge il sistema valoriale in cui è inserita la nostra storia.
Nel mito originale, quello scritto dai cinesi dell’epoca, e che per questo veicolava valori nazionalisti e patriottici, Mulan per dodici anni combatte sotto falsa identità. E lo fa sia per il bene del padre che per il bene della nazione.
Riesce, sempre senza mai rivelare la sua identità, a scalare le gerarchie dell’esercito e a diventare generale.
Alla fine, rifiuta addirittura un posto come alto funzionario imperiale, solo per tornare dal padre anziano.
La sua identità non viene mai scoperta durante la guerra e solo le insistenze di un comandante anziano, che voleva dare in sposa la propria figlia a Mulan, la portano a rivelare la sua vera identità.
Ed è qui che la morale della storia arriva a compimento. Il padre della pretendente, scoperta la vera identità di Mulan, la stima ancora di più.
Questo perché, in quel momento, lei non è solo una donna o solo un generale capace, ma un generale che ha salvato la Cina nonostante fosse una donna.
Ha fatto non cento partendo da zero, ma cento più uno partendo da meno uno.
Tutta la storia originale è permeata del concetto di patria e famiglia.
Mulan sacrifica la sua identità e la sua condizione (che le garantirebbe, in quanto donna, il privilegio di non combattere e rischiare la vita) per salvare il padre ed aiutare il suo paese.
Il sesso diventa secondario.
O meglio diventa un bonus nel momento in cui lei dimostra di aver rinunciato alla sua condizione di donna, quindi col privilegio di non combattere, per salvare il padre e servire l’Imperatore.
E per questo è degna di stima da parte del comandante.
Lui la ammira due volte: uno per ciò che ha fatto e due perché l’ha fatto, consideriamo il contesto temporale e sociale, da donna.
Perché ha anteposto alla sua condizione il bene del padre e della Cina.
La storia viene parzialmente stravolta nel film animato del 1998.
La Disney, prima della deriva woke degli ultimi anni, aveva per tutte le sue storie un format abbastanza collaudato, riassumibile in: eroe che nessuno considera che, contro tutte le aspettative, risolve la situazione grazie all’impegno, alla forza di volontà e alla sua particolarità.
Ciò era (ed è) fantastico, perché è di grandissimo insegnamento per grandi e piccini. Insegna che con perseveranza e abilità chiunque può arrivare ed ottenere.
Certo, potremmo vedere in ciò un elogio del mito della meritocrazia, ma in questo contesto ci interessa soffermarci sulla figura di Mulan ‘98.
La prima parte della storia è sostanzialmente la stessa: la guerra, l’arruolamento, lei che prende il posto del padre.
Solo che qui Mulan è soggetta ad una marcata crescita personale.
È una ragazza in un ambiente di ragazzi.
Non ha la forza e le capacità fisiche dei compagni e ciò le provoca grande difficoltà.
Inoltre, essendo comunque un accampamento militare, la vita quotidiana a contatto con i commilitoni rende difficile la sua copertura e il mantenimento del suo segreto.
Ma fermiamoci un attimo, perché è da questo momento in poi che la storia di Mulan ‘98 diventa più femminista di quella di Mulan ‘19.
Il metaforico percorso di raggiungimento di “parità” con i commilitoni maschi in Mulan ‘98 è praticamente annullato in Mulan ‘19.
Qui Mulan è già la più brava e la sua bravura non è riconosciuta da tutti solo perché “è femmina”.
Ma perché Mulan ‘19 è brava?
Perché semplicemente è predestinata. Perché già fa parte, prima ancora di iniziare la storia, di una categoria di “più bravi”, di privilegiati, della cosidetta èlite.
Lei è brava a prescindere, è già la migliore, ma ciò non le viene riconosciuto solo perché donna.
Qui le due storie divergono, perché mentre in Mulan ‘98 tutto si basa sulla fatica di raggiungere il livello dei commilitoni maschi, in Mulan ‘19 tutto si basa sul tentativo di farsi riconoscere, da parte di una società patriarcale, una superiorità che esiste già, che è già innata e fattuale.
Mulan ‘98 non è brava a combattere, ma è furba e intelligente. E sfrutta questo per fermare gli Unni.
Nonostante ciò viene allontanata dal suo comandate Li Shang (figura centrale, eliminata in Mulan ‘19 a causa delle derive iconoclaste del #MeToo), ma lei non si da per vinta e, con determinazione e forza di volontà, arriva addirittura a salvare l’imperatore.
Ma non lo fa sfruttando la caratteristiche marziali maschili che pure ha imparato ad utilizzare.
Non dimostra che lei sa fare le stesse cose dei maschi, ma meglio perché femmina, come invece accade in Mulan ‘19.
No, Mulan ‘98 vince sfruttando ingegno e, udite udite, un travestimento femminile.
È qui che si compie il messaggio realmente femminista di Mulan ‘98. Grazie al travestimento da concubine dell’imperatore, quindi una cosa totalmente femminile, Mulan e alcuni compagni salvano l’Imperatore.
E ci riescono perché per un attimo viene messa da parte la superiorità marziale maschile e l’uomo si convince che solo sfruttando le peculiarità dell’altro sesso (in questo caso il travestimento da donna) si può ottenere il risultato finale.
Non c’è lotta per la supremazia, ma riconoscimento di uguaglianza nelle differenze.
Il geniale capovolgimento, da Mulan che si traveste da uomo a Mulan che convince gli uomini a travestirsi da donne, è il capolavoro di un messaggio femminista, ma sarebbe meglio dire antisessista, che meglio non poteva essere espresso.
Entrambi i sessi, con le loro peculiarità, possono concorrere ad un fine superiore. Non c’è prevaricazione in quanto i commilitoni maschi capiscono che quello è il momento in cui bisogna mettere da parte il maschile e sfruttare il femminile.
Sono loro che ora rincorrono il femminile, come Mulan per mezzo film aveva rincorso il maschile. Ed entrambi capiscono che ci può essere coesistenza e complementarietà.
Mulan che parte per farsi accettare finisce, grazie alla sua perseveranza e al suo “cammino dell’eroe”, per essere accettata per quello che è.
Anzi, addirittura per vedersi riconosciute le sue peculiarità e la sua bravura “in quanto femmina”. Non “perché femmina”, cosa che è invece il mantra del Mulan liberal-femminista del 2019.
Perché in Mulan ‘19, non c’è ricerca di parità, ma solo di riconoscimento di una bravura preesistente. Mulan ‘19 è già brava, anzi più brava di tutti. E tutto il suo cammino è atto solo a dimostrare che lei è già la migliore, che lei deve avere il posto che le spetta di diritto.
Mulan ‘98 passa l’intero film a cercare di diventare brava, ma alla fine riesce a far capire che lei può essere brava in modo diverso.
E che questo modo diverso e femminile può essere inserito nel sistema valoriale maschile e coesistere con esso.
Mulan ‘19 passa invece l’intero film a dimostrare a tutti che è già più brava degli uomini anche secondo parametri di valutazione del sistema valoriale maschile.
E che per questo gli uomini devono farle posto accettando una realtà fattuale.
Ma è un posto che ottiene non sovvertendo o integrando un sistema valoriale, non inserendo le sue peculiarità in tale sistema, ma solo facendo prendere atto a tutti che lei è migliore di loro.
Che i maschi le devono far posto perché lei sa fare le stesse cose che sanno fare i maschi, ma meglio in quanto femmina.
Mulan ‘19, come gran parte dei personaggi femminili dell’ultimo quindicennio, passa l’intero film a dimostrare di poter fare le stesse cose degli uomini, di saper fare le stesse cose degli uomini, ma soprattutto di saperle fare meglio in quanto donna.
Non c’è parità, non c’è riconoscimento del valore della differenza e della specificità. Non c’è nemmeno crescita. Solo una lotta “tra élite”.
Personaggi già capaci di fare quanto richiesto per essere parte delle élite che sgomitano per avere il riconoscimento del loro status di bravi. Senza mai mettere in discussione i criteri secondo i quale è stabilita tale bravura.
Non c’è alcun sovvertimento valoriale, nessuna crasi di mentalità e pensieri, nessun antisessismo.
Solo un’omologazione ad un sistema valoriale preesistente che è perfettamente specchio di ciò che è il liberal-femminismo.
Mulan ‘19 è come quel celebre meme del professore dei Simpson che dice che 8 uomini sono ricchi quanto metà mondo, ed una sdegnata Lisa insorge perché è scandaloso che almeno 4 non siano donne di colore.
Sposta il focus dai criteri con cui è definito chi è “bravo” ad una lotta tra “già bravi”.
Insomma Mulan ‘19 a differenza di Mulan ‘98 non ottiene il gran finale perché se lo merita, ma solo perché le spetta.
Non è molto diversa dalla ricca figlia di un industriale che, agitando la retorica liberal-femminista, non vuole altro che un pezzetto più grosso della sua già comunque consistente torta di privilegio.
Vuole non la possibilità di parità per tutti, ma solo il riconoscimento di un posto che le spetterebbe di diritto in quanto portatrice a priori dei prerequisiti per essere definita brava (nel caso preso ad esempio la ricchezza, la buona istruzione, il cognome, il capitale relazionale della famiglia, ecc…).
Prerequisiti che, in questo momento, non le vengono riconosciuti solo perché donna.
Ma la sua presunta bravura resta stabilita sempre secondo un sistema valoriale che non viene mai e poi mai messo in discussione.
È in definitiva il capolavoro del liberal-capitalismo.
Per essere parte del successo non devi portare le tue peculiarità e le tue capacità, ma solo e soltanto pretendere che una tua condizione di bravura preesistente sia unanimemente riconosciuta per sederti anche tu al tavolo dei bravi che sono lì prima di te.
Senza, ripetiamo, mai cambiare i criteri per decidere chi sia “bravo” e chi no.
Mulan ‘98 diventa brava secondo il sistema valoriale dominante dopo un percorso faticoso, ma poi dimostra che lei è brava a modo suo e che questo modo suo può essere quel quid in più per sovvertire i criteri di selezione della bravura.
Mulan ‘19 è già brava secondo il sistema valoriale esistente. Mulan ‘98 lotta affinché la sua bravura, che non è ancora bravura secondo il sistema valoriale dominante, sia riconosciuta, sia notata.
E ci riesce. Mulan ‘19 pretende che la sua bravura, che è già bravura secondo il sistema valoriale dominante, sia ufficializzata.
E davvero stiamo a chiederci quale dei due film è più inclusivo e antisessista?