Napoli è sconosciuta agli stessi napoletani? L’immensa, vasta, caotica storia partenopea e come questa sia sconosciuta anche ad i napoletani.
Il problema a Napoli è che la cultura napoletana è sconosciuta agli stessi napoletani.
Al liceo avevo due professoresse che, col senno di poi, avrebbero davvero meritato una statua di marmo all’ingresso della scuola.
Insegnavano due materie che oggi, sull’altare di un sistema che ci vuole solo efficienti e performanti (se poi ignoranti anche meglio), sono considerate superflue, un retaggio di un passato ozioso e improduttivo che sacrifica il progresso e l’efficienza sull’altare del sapere fine a sé stesso.
Le materie in questione erano arte e storia.
Anche un decennio fa, e la cosa mi fa sentire particolarmente vecchio, la retorica del “la scuola deve essere funzionale al mondo del lavoro” faceva percepire in molti, soprattutto studenti particolarmente sensibili ai cannoni della propaganda, queste materie come orpelli inutili di un sistema scolastico anacronistico e non al passo con le “gioie” (e le corse) della modernità.
Nonostante ciò queste due eroiche insegnanti, in un contesto della periferia napoletana oltretutto, continuavano imperterrite, con passione e oserei dire abnegazione, a voler insegnare al meglio le loro materie.
Col senno di poi, con la maturità e la disillusione verso questo sistema che classifica il sapere sull’altare dell’utilità per i mestieri (secondo quello stesso sistema) più performanti, ho rivalutato tantissimo il loro insegnamento.
Soprattutto su di un punto: Napoli!
Quando parliamo di arte, cultura e storia a Napoli non possiamo non renderci conto di una cosa: a Napoli non si studia la storia e l’arte di Napoli.
Il che fondamentalmente è un problema che colpisce tutto il mezzogiorno, perdonate la sparata di pose storica, sia la Sicilia al di qua del faro che la Sicilia al di là del faro. Le ragioni?
Essenzialmente politiche: se dici ad un popolo che non è mai stato nulla, che non ha mai prodotto nulla nel passato, esso accetterà qualsiasi condizione subalterna nel presente.
E l’Italia è un paese in cui una sua metà vive in una condizione di voluta subalternità.
Vedere scene di ragazzi, anche abbastanza istruiti, che parlano di quanto è bella Milano, quanto è bella Firenze, quanto è bella Venezia e poi gettano i loro cocktail annacquati nelle mura greche di Piazza Bellini fa male al cuore.
Ma il problema, al di là dell’implicazione “civica”, non è il cocktail gettato nelle mura greche: è il fatto che nessuno ha insegnato loro che lì ci sono le mura greche.
Come nessuno ha insegnato loro che basta attraversare la strada e hai la Cappella Sansevero, con opere che nulla hanno da invidiare alla Pinacoteca di Milano che raggiungi con ore di treno.
Tornando alle due eroiche professoresse.
Di fronte a libri di testo che facevano apparire il Meridione come landa da sempre arida e desolata, sia economicamente che intellettualmente, loro resistevano impervie.
Stampavano a loro spese dispense ed estratti di articoli e libri esteri che raccontavano un’altra di storia.
La prof di storia, friulana, quindi quanto di più lontano dallo stereotipo della neoborbonica revanscista, aveva fatto della pessima narrazione della storia del Mezzogiorno nei libri di testo italiani un suo vero e proprio cavallo di battaglia.
Per lei era inconcepibile che uno studente meridionale avesse buchi enormi riguardo la propria storia.
Si insegnava vita opere e miracoli della Lega Lombarda, del Regno dei Longobardi, delle Signorie, di Firenze, Milano e Venezia e poi otto secoli di storia del Sud erano ridotti a: cade l’Impero Romano (tralasciando che la pars orientalis era viva e vegeta e ancora presente al Sud), arrivano i Normanni, Federico II, gli angioini, gli spagnoli.
Episodi costitutivi dell’identità non solo meridionale, non solo italiana, non solo europea erano volutamente messi in secondo piano.
La Battaglia di Ostia, avvenuta secoli prima della Lega Lombarda, è misconosciuta alla quasi totalità degli studenti meridionali.
Eppure è il motivo per il quale in Italia oggi non siamo a maggioranza islamici.
Così come l’assedio di Otranto.
In compenso uno studente del Sud sa vita, opere e miracoli (se studia dai sussidiari) del Ducato di Milano e della Repubblica di Venezia.
Per non parlare dell’arte e della letteratura. Con la prof d’arte organizzavamo gite per Napoli.
Col senno di poi fa specie rendersi conto che il 90% delle opere d’arte napoletane sono sconosciute ai napoletani.
In compenso i libri di storia sono pieni di Firenze, Milano, Venezia, ecc… E basta aver visitato un po’ il Sud ed essersi fermati oltre la balneazione per sapere che la stessa cosa accade a Lecce, Bari, Palermo, Catania, Messina.
Gli studenti meridionali studiano arte a 800km da casa loro e poi passano davanti ad opere del loro territorio senza conoscere nemmeno il nome dell’opera o dell’artista.
E questo, all’atto pratico, si traduce in: facimmeschifo! Non abbiamo mai combinato niente!
Come in paesi post-coloniali assistiamo recentemente una riscoperta della propria storia, scientemente occultata per secoli dall’uomo bianco, così dovrebbe avvenire anche al Sud.
Ci dovrebbe essere una riscoperta di storie, opere d’arte, opere letterarie, lingue. Soprattutto lingue.
Un problema, e qui a dire il vero la cosa riguarda anche il Nord, è la demonizzazione di quelli che sono dispreggiativamente chiamati “dialetti”.
Il napoletano (che non è solo quello parlato a Napoli, ma una lingua romanza che comprende i vari dialetti del napoletano, del barese, del foggiano, del cilentano, ecc…), il siciliano, il sardo, il veneto, il piemontese sono tutte lingue con un patrimonio culturale e storico che, invece di essere valorizzate, sono state declassate sull’altare di una supremazia artificiale del toscano.
Anche qui le motivazioni sono strettamente politiche: fatta l’Italia bisognava fare gli italiani.
E se per i primi anni si cercò di farli con le baionette dei bersaglieri, dagli anni ‘60 li si è fatti con la televisione.
Se esiste una cultura italiana moderna lo si deve alla RAI e alla sua programmazione televisiva.
Ma ciò è avvenuto per scelte politica, sacrificando tutte quelle particolarità ragionali che invece erano ricchezza.
Per rendere artificialmente “fratelli” un siciliano e un altoatesino non si sono valorizzati i punti in comune, ma si sono demonizzati i punti non in comune, le loro particolarità, le loro differenze, le loro ricchezze.
La letteratura “dialettale” in Italia ha esponenti che non hanno nulla da invidiare a Dante o Manzoni: basti pensare a Basile per quel che riguarda il napoletano, fonte di ispirazione persino per i fratelli Grimm, oppure tutti i poeti in lingua siciliana o le opere teatrali di Goldoni in Veneto.
Si parla tanto di kilometro zero e di glocale.
Invece di importare acriticamente modelli culturali e mediali da oltreoceano, bisognerebbe valorizzare la produzione in loco.
Prendere ad esempio la musica. Da sempre, essendo arte molto “popolare”, ha mantenuto vivo il rapporto con il luogo, con la prossimità anche linguistica.
Non stiamo parlando di neomelodici, ma di musica per il teatro, di rap, di trap. Qui l’uso del dialetto non è mai stato messo realmente da parte.
Creare quella giusta amalgama tra cultura locale, che spesso è quella più genuina, cultura nazionale, che spesso è quella imposta dalla politica e cultura globale, che invece segue le imposizione del mercato.
Perché le vere innovazioni arrivano quando c’è commistione non certo quando si impone standardizzazione.