di Giancarlo Di Stadio
Da Vikings ad AC: Valhalla, le ragioni che hanno trasformato i vichinghi in un fenomeno POP.
Skol, Ragnar, Valhalla.
Se per voi questi nomi non significano nulla forse, negli ultimi dieci anni, avete vissuto in una bolla nella quale la Scandinavia è rimasta solo sinonimo di domeniche passate in un discount di mobili difficili da montare.
La cultura pop è risaputo, va avanti a filoni.
I due filoni che, in questo ultimo decennio (dopo aver momentaneamente messo da parte vampiri e zombie), tirano di più sono: remake/reboot, di cui nessuno sentiva la necessità (Ghostbuster, coff coff) e i Vichinghi.
L’ultimo decennio è infatti stato un fiorire di produzioni letterarie, audiovisive e videoludiche dedicate alle più disparate saghe norrene, con una predilezione particolare per le storie ambientate nel VIII-IX sec. d.C. in Gran Bretagna.
Un periodo turbolento da cui nacque l’Inghilterra che conosciamo oggi.
A dire il vero il mondo anglosassone ha sempre avuto una certa attrazione per il norreno.
Questione di cultura.
La cultura britannica, con i suoi spin-off d’oltremare (USA, Canada, Australia), ha nelle saghe norrene il corrispettivo che noi mediterranei abbiamo nell’Iliade e nell’Odissea.
Come la nostra cultura si fonda sui miti e sugli dei dell’Olimpo, la loro, si può dire, si fonda sul Valhalla e su tutto ciò che gli ruota attorno.
Con la sostanziale moltiplicazione e internazionalizzazione dei canali di fruizione audiovisiva, pensiamo a Netflix, Prime, Disney+, la cultura americana (o comunque anglosassone) è ancora di più entrata nelle nostre case.
Se prima le serie tv americane che arrivavano in Italia erano solo quelle comprate dai principali network televisivi, adesso praticamente tutto quello che viene prodotto oltreoceano, in un modo o nell’altro, legale o semi-legale, arriva anche da noi.
Così il mondo anglosassone, la sua cultura e i suoi “miti fondanti” sono diventati ancora più familiari, ancora più “nostri”.
Dalla serie tv Vikings (produzione canadese che, dopo la trasmissione su Netflix, è diventata un vero e proprio prodotto cult) fino al recentissimo Assassin’s Creed Valhalla (ultimo episodio della fortunatissima serie di videogames che racconta il conflitto tra Assassini e Templari e che, in quest’ultima uscita, ha come setting proprio i vichinghi e la loro invasione delle coste inglesi) più o meno tutti hanno avuto modo di avvicinarsi a questa “grande fetta” di cultura umana.
Non bisogna dimenticare poi la cara vecchia carta, il libro e la fortunata saga I re dei sassoni di Cromwell, ambientata anch’essa ai tempi delle invasioni vichinghe dell’Inghilterra, da cui è tratta l’altrettanta fortunata serie tv, sempre su Netflix, The Last Kingdom.
Oppure, per tornare ai videgames, l’ultimo God of War, serie storicamente ambientata in Grecia, ma che, nella nuova incarnazione, vede il burbero Kratos fare incetta di scalpi nel pantheon norreno.
Guai poi a non citare il personaggio Marvel di Thor, il Dio del Tuono.
La celebre casa fumettistica, e successivamente l’intero Marvel Cinematic Universe, ha pesantemente tratto ispirazione dalla mitologia vichinga.
I personaggi Marvel, da Thor a Loki, passando per Odino o le Valchirie, sono presi “paro paro” dalle saghe norrene.
Ma perché tanto hype per i vichinghi?
In primis la risposta più banale (forse la migliore tecnicamente parlando) è perché, “è un filone che vende”.
Se vende, un filone lo si sfrutta fino alla fine anche a costo di distruggerlo.
Basti pensare all’operazione compiuta con l’ultima trilogia di Star Wars oppure la doppia cifra di stagioni di The Walking Dead.
Sul “perché vende?” si potrebbe aprire un’ulteriore lungo discorso.
In primis per i già citati fattori culturali.
L’audiovisivo e un mezzo dove domina la cultura anglosassone, la loro visione del mondo (nel bene e nel male) e anche la loro mitologia fondante.
Dopo aver (per anni) spolpato la Grecia e Roma antica (mito a noi più vicino, ma comunque fondante della civiltà occidentale in generale), il setting successivo, se vogliamo escludere l’esotico o il lontano, era naturale fosse quello vichingo.
C’è poi un altro fattore: Tolkien.
Si! Il padre del Signore degli Anelli. Tolkien ha praticamente definito il fantasy. Qualsiasi autore, scrittore, filmaker, disegnatore che si vuole approcciare al genere fantasy non può non prendere a piene mani i capisaldi di Tolkien.
Tolkien a Oxford nel 1972, Foto di Bill Potter (Fonte: ilmanifesto.it)
Ora, la mitologia di Arda, quella creata da Tolkien, è una mitologia che poggia le sue basi, e non poteva essere altrimenti, proprio su quella norrena, germanica o comunque anglosassone.
I nani, gli elfi, i troll, ecc… insomma il campionario di razze fantasy classiche sono creature che derivano dalla mitologia norrena.
Quindi, creare storie con alla basa tale mitologia, consente anche di essere più riconoscibili al grande pubblico.
Un continuo auto-alimentare il primato germanico-norreno nell’universo low e high fantasy.
C’è infine l’ultimo fattore: la lontananza dai nostri valori e, direttamente collegato a questo, il piacere della loro riscoperta.
L’Europa si fonda su basi romano-cristiane. I vichinghi avevano una mentalità completamente diversa: erano, per gli europei dell’epoca e anche per i loro nipoti ormai cristianizzati, qualcosa di simile agli alieni. E per questo, ai nostri occhi, ancora più affascinanti.
La morte in battaglia, il concetto di onore, il legame tra il guerriero e la sua ascia, sono tutte cose che affascinano soprattutto chi, dopo secoli di cristianesimo prima ed illuminismo poi, vive oggi in un’epoca di declino di ogni valore immateriale, in un nichilismo perpetuo e in una bulimia del tutto e subito che preclude qualsivoglia sacrificio o rinuncia per “l’oltre”, “il dopo”, il “non-tangibile”.
L’impegno del vichingo nel cercare la morte onorevole in battaglia, tutto in funzione del “dopo”, risulta, agli occhi di chi vive nell’eterno presente, un qualcosa di incomprensibile e affascinante allo stesso tempo.
L’avventura per mare con il conseguente spirito di incertezza nel proprio destino è un qualcosa che scatena l’inconscio istinto primordiale di scoperta dell’ignoto, del nuovo, dell’inconoscibile.
I vichinghi nelle rotte polari (Fonte: nauticareport.it)
Questo in uno spettatore abituato invece al massimo dubbio esistenziale di quali serie, tra le mille che gli arrivano comodamente sul pc, vedere e alla certezza che la sua vita sarà scandita perpetuamente da una routine che lui odia, ma di cui non riesce a farne a meno.
Cos’è l’audiovisivo, l’intrattenimento, il videogioco, se non la semplice evasione dalla realtà? Il ritrovarsi in mondi che affascinano, ma che sappiano non ci appartengono più.
Nel rivivere, attraverso un telecomando o un joypad, avventure che la nostra indole umana vorrebbe compiere, ma che la società, materialista e nichilista, ci ha indirettamente fatto capire che non compiremo mai?