Videogiochi e censura: what the f**k?

di Giancarlo Di Stadio

Videogiochi e censura: what the f**k? La censura nel mondo pop dei videogiochi. Prodotto pop da sempre catalizzatore di polemiche e censure.

I videogiochi sono sempre stati portatori di una certa ambivalenza

Cosa che ha finito per intrecciarsi a doppio filo con la censura e con le polemiche che essa inevitabilmente genera.

Da un lato sono sempre stati considerati una sorta di “arte secondaria”, un mezzo prettamente ludico, fratello minore e sfigato rispetto al cinema, all’arte o alla letteratura.

Proprio questa loro dimensione percepita esclusivamente come ludica ha fatto si che essi, come gli anime e i manga, fossero considerati un qualcosa “per bambini”, e per questo bisognosi di essere trattati con spocchia paternalistica e diffidenza.

Dall’altro lato però ciò ha paradossalmente permesso, soprattutto nei primi tempi, una libertà artistica e contenutistica che altri media si sognavano.

Mentre il cinema e la letteratura erano costantemente scandagliati da censori politici, e gli stessi film o libri, per essere prodotti e distribuiti, dovevano rispondere a determinati diktat sia politici che di mercato; i videogiochi hanno goduto, almeno all’inizio, di una certa libertà autoriale

Permettendo quindi la trattazione di tematiche spesso “scomode” o addirittura avanguardistiche per l’epoca.

Ciò ha fatto si che quando la politica e il mercato si sono iniziati a rapportare al medium videoludico l’hanno fatto secondo logiche anacronistiche che spesso hanno scatenato reazioni totalmente opposte a quelle desiderate. Soprattutto se parliamo di censura.

Discutere del caso italiano sarebbe come sparare sulle croce rossa. 

Il Bel Paese, fanalino di coda europeo nella digitalizzazione, è il luogo dove il fu Ministro dell’Innovazione Carlo Calenda tuonava fiero che ai figli erano vietati i videogiochi.

Questo mentre il governo polacco sovvenzionava la CD Projekt Red e la francese Ubisoft diventava tra i leader del mercato, generando utili e creando posti di lavoro in patria e all’estero.

L’Italia, come al solito, risulta ancora ancorata a polemiche del secolo scorso.

Polemiche che, in altri paesi, sono da tempo state superate. 

Certo, anche in paesi con un’alta dose di “puritanesimo ideologico” come gli USA, oppure che non hanno ancora completamente fatto i conti con il proprio passato, come la Germania, le polemiche dietro a medium videoludico sono all’ordine del giorno.

Una storia che parte da lontano, da quando il videogioco era sviluppato da nerd e per nerd.

Già nei lontani anni ‘80 le avanguardistiche associazioni di “mamme informate” iniziarono a criticare e a pretendere di censurare i primi, allora ancora pixellati, videogiochi.

Un mezzo che distraeva e mal-educava una generazione cresciuta da chi, con tutta l’ipocrisia di questo mondo, passava più della metà del proprio tempo libero davanti alla passività della televisione.

Agli albori della rivoluzione informatica si è cercato di applicare ai videogiochi lo stesso tipo di censura che si applicava agli anime.

Entrambe partivano però da un presupposto sbagliato

Prodotti per ragazzi o per adulti, creati e sviluppati da adulti, venivano considerati esclusivamente per bambini.

Così, come negli anime c’era il paradosso di ritenere Ken il Guerriero un cartone al pari di Pippo e Topolino, anche nel mondo dei videogiochi c’era la pretesa di semplificare buttando nel calderone di “è per bambini” sia lo sportivo che il picchia duro.

L’introduzione del PEGI, che ha creato una prima differenziazione “per età”, non ha certamente fermato le polemiche.

Ancora oggi schiere di genitori, che magari durante la loro infanzia sono stati i pionieri del videogioco in Italia, sono contrari che i figli passino ore davanti alla PlayStation o all’XboX.

Quando poi sono gli stessi che spesso tollerano il bindgewaching selvaggio su Netflix o addirittura lo praticano in prima persona.

Insomma, le feroci polemiche che accompagnarono l’allora uscita di Death Race e l’isteria per i gremlins troppo simili ai bambini, cambiano nella forma, ma non nella sostanza.

I bambini, qualcuno pensi ai bambini!

Il videogioco, che nel frattempo è passato dai pixel al fotorealismo, è sempre un potenziale pericolo. 

Un qualcosa per bambini che necessita di una supervisione adulta. 

Qualcosa che resta legato allo stereotipo del possibile veicolo di diseducazione.

Addirittura paesi dove è possibile comprare armi semi-automatiche accanto al banco frutta sono in prima fila nell’accusare il GTA di turno dell’ennesima strage verificatasi in una scuola.

Perché lo sappiamo tutti che se uno studente, evidentemente con problemi pregressi, si mette in testa di ammazzare metà istituto è colpa di un videogioco e non delle condizioni sociali e psicologiche generate da una società che poi gli permette pure di comprare un fucile mentre fa le commissioni per la mamma.

La critica certe volte raggiunge dimensioni paradossali: nel 1992 Mortal Kombat uscì in due versioni diverse.

Una censurata per Nintendo e una non censurata per SEGA. 

Indovinate? Quella non censurata fu un totale successo tanto che essa tirò la volata al MegaDrive nel recupero di posizioni di mercato contro la dominante SNES.

Le polemiche quasi sempre si rivelano un boomerang per i censori e una straordinaria pubblicità per gli sviluppatori. 

Ogni uscita di GTA è accompagnata dalle solite polemiche sulla violenza.

Ogni GTA fa il pieno di incassi e premi. In Italia poi c’è tutto un filone di politici che tuonano, minacciano boicottaggi, cause, blocchi… ma alla fine non ottengono nulla.

Rule of Roses ebbe editoriali al veleno da parte di Panorama perché mostrava violenza sui minori. 

Peccato che nessuno degli editorialisti di Panorama avesse mai preso in mano il joypad e l’avesse giocato.

Bully si meritò, e come poteva essere altrimenti con quel nome, un’interrogazione parlamentare dell’allora Ministro Fioroni, Manhunt 2 dal sempre allora Ministro Gentiloni.

GTA IV, sempre lui, scomodò, prima dei Ferragnez, le ire del Codacons. La Rockstar, che detiene a quanto pare il record di polemiche scatenate, smontò, dati alla mano, tutte le tesi sulla “protezione dei bambini”. 

L’età media dei giocatori di GTA è 28 anni! Cioè persone che da almeno un decennio possono fumare, comprare superalcolici e prendere multe superando i limiti di velocità nella vita reale!

Censurare qualcosa reperibile su internet ha senso?

Con l’esplosione di internet e dei download più o meno legali la censura ha finito per essere, come nel caso degli anime, qualcosa di inutile e addirittura paradossale. 

Basta cambiare un VPN e anche giocatori di paesi la cui censura in ambito videoludico è estremamente stringente, come Cina o Australia, possono accedere a contenuti da tutto il mondo, nella versione non tagliata.

Così, la Germania che censura qualsiasi riferimento al nazismo nelle proprie opere non può impedire che videogiocatori di Wolfenstein scarichino versioni estere e godano, all’interno del gioco, dei bandieroni nazisti e dei (storicamente sacrosanti) riferimenti a Hitler.

C’è poi chi si prende apertamente gioco della censura e addirittura la fa diventare parte dell’esperienza videoludica. 

Gli sviluppatori di Ubisoft nella loro trasposizione dell’irriverente South Park, per criticare la bigotta censura dell’Unione Europea, decisero di ridicolizzarla apertamente.

Non potendo “mettere in scena” determinate situazioni si limitarono a descriverle testualmente con tanto di pungente ironia nei confronti dei censori. 

D’altronde se l’ipocrisia arriva al punto di ritenere “passabile” la stessa scena solo ed esclusivamente a seconda del mezzo con cui è mostrata, tanto vale sfruttare la cosa per ridicolizzare tale ipocrisia.

The Politically Correct strikes back!

Negli ultimi anni, ai già isterici ambienti conservatori, si sono aggiunti i liberal. Oggi è anche l’isteria politicamente corretta a montare polemiche.

Purtroppo, intrecciandosi essa con la “censura del mercato”, ed essendo “sponsorizzata” dagli stessi che hanno interessi nella produzione e distribuzione anche dei videogiochi, risulta più difficile da eludere.

Tre filoni sono particolarmente “cari” agli inquisitori del politicamente corretto nei videogiochi: donne, minoranze e ossessione per il sesso/identità sessuale.

Dopo una prima campagna sull’assenza del genere femminile nei protagonisti dei videogiochi, cosa portata avanti da chi evidentemente non aveva mai preso in mano un Metroid o un Tomb Raider, la polemica si è concentrata sull’attacco alla sessualizzazione e all’oggettificazione della figura femminile.

Chiariamo: non hanno tutti i torti. I presupposti da cui si è partiti sono giustissimi, ma come sempre ciò è degenerato in qualcosa di vuoto o addirittura deleterio.

Il videogioco ha sempre avuto un target prettamente maschile, quindi l’inserimento di PG femminili è sempre stato fatto, per ragioni prettamente di mercato, tenendo conto del gusto maschile.

Il problema è che la woke culture non si è limitata alla sacrosanta de-sessualizzazione e de-oggettificazione di tali PG, ma si è spinta fino alla pretesa di inserimento in contesti anacronistici, ma soprattutto alla sfacciata mary-suizzazione di tali PG femminili.

Seppur con lodevoli resistenze artistiche, i Tripla-A sono a volte stati infarciti di PG femminili tanto per, troppo perfetti per essere verosimili, inseriti in contesti anacronistici o comunque irrealistici, simili insomma alle controparti cinematografiche degli ultimi anni.

 

Peggio ancora, per evitare i proverbiali “cacamenti di cazzo” gli sviluppatori hanno inserito, anche in giochi che non lo richiedevano, la possibilità di scegliere il sesso del personaggio. Senza che questo impatti in alcun modo sullo svolgimento della storia.

Così nella Grecia Antica ti trovi una donna che partecipa tranquillamente, senza incredulità alcuna, alle Olimpiadi (a cui, alle donne, era vietato persino assistere). Una cosa che in un videogioco come Assassins Creed: Origins, che fa della ricostruzione di un’epoca storica il suo punto di forza, ti fa perdere tutta la sospensione dell’incredulità.

 

Naturalmente tali problemi sono circoscritti ad alcuni generi e ad alcune ambientazioni.

Nessuno sano di mente si sognerebbe mai di criticare un PG femminile inserito in un contesto di GDR fantasy (con lore del mondo che permette il suo inserimento in determinati ruoli) o un action sci-fi ambientato in un epoca dove la parità di genere è stata già raggiunta da tempo.

Anzi, chi scrive è il primo a cui nei GDR piace sperimentare vari personaggi e che quindi non disdegna run con PG femminili o anche omosessuali.

Ma se ciò intacca la sospensione dell’incredulità e la costruzione di un setting coerente con il periodo preso come riferimento, la faccenda assume tutt’altri contorni.

 

Omosessuali e loro rappresentazione che, assieme alle quote etniche, sono un’altra fonte di polemiche. Kingdom Come: Deliverance, ambientato nella Boemia medievale, fu oggetto di un isterico attacco via Twitter perché non c’erano neri e gay. Nella Boemia del 1300? Davvero?

 

Spesso tali polemiche, nate sul social più autoreferenziale che esista, Twitter, sono portate avanti da persone che mai hanno preso nella vita un joypad. È la versione liberal della stessa ossessione per la censura di un medium a loro sconosciuto che hanno i conservatori. Entrambi pretendono che il mezzo sia portatore di una morale: la loro.

 

Il sesso, o meglio il tabù sessuale, diventa nei videogiochi il terreno dove questi due conformismi danno il meglio di se.

Al più generico “proteggiamo i bambini dal sesso” dei conservatori fa da contraltare l’ossessione per l’oggettificazione sessuale o per la sua mancata rappresentazione in tutte le sue forme.

Così il tentativo di stupro, funzionale alla trama, nel reboot di Tomb Raider diventa motivo di richiesta di boicottaggio. Sia perché è mostrato, sia perché è mostrato in quanto violenza di un uomo su di una donna.

In un gioco, che esattamente 2’ dopo, prevede sparatorie ed esecuzioni con una piccozza. Oppure vengono fortemente criticare le romance.

Perché o troppo poco rappresentative di ogni orientamento sessuale o anche solo perché mostrate (in un mezzo ritenuto sempre, a torto, “per bambini”).

Sempre per il celebre “evito ogni rottura di ca**o” gli sviluppatori sono spesso costretti, accanto a romance scritte con finalità di trama, ad inserire romance raffazzonate messe tanto per… senza nemmeno poter osare nel mostrare quel qualcosa in più.

 

Oppure, sempre per citare i due opposti estremismi, ci troviamo di fronte alla paradossale situazione che in un videogioco ambientato in un futuro distopico, CyberPunk 2077, in cui la sessualità è oggettificata al massimo per pura esigenza di trama, da un lato si gridi alla presenza di troppo sesso facile, dall’altra alla presenza di troppa oggettificazione del sesso. 

Quando nessuno dei due estremismi si rende conto che mostrare il sesso in tale modo è una pura e semplice esigenza di trama.

La storia a modo… woke

Ultimamente l’ossessione per il riscrivere la storia secondo canoni “inclusivi”, qualunque cosa voglia dire questa parola, sta creando non pochi grattacapi a chi sviluppa videogiochi a tema storico.

La già citata inclusione forzata nei recenti Assassin’s Creed e in Kingdom Come: Deliverance è nulla in confronto a ciò che invece devono “subire” gli sviluppatori di giochi strategici.

La serie Age of Empries è dovuta uscire, nel suo terzo episodio rimasterizzato, con un disclaimer in cui si condannano determinati comportamenti messi in scena.

Il videogioco si svolge in epoca moderna/coloniale e offre una rappresentazione dei popoli nativi che, per la sensibilità odierna, è ritenuta “sbagliata”.

Stessa cosa per i grand-strategy della Paradox. Col passare degli anni, e con il successo commerciale che li ha fatti conoscere anche al di fuori dell’ambiente degli appassionati del genere, i loro giochi hanno inserito sempre più opzioni facoltative “anacronistiche”.

In Imperator:Rome è stata aggiunta una specifica opzione per la parità di genere in un contesto di storia antica, mentre nel terzo capitolo della serie Crusaders King, una sorta di mix tra un grand-strategy e un GDR, sono state inserite tutta una serie di opzioni per rendere accettata l’omosessualità o per permettere, anche in regni dove era storicamente in vigore la legge salica, l’ereditarietà femminile.

Naturalmente ciò ha fatto storcere il naso ai puristi della storia, ma il modo intelligente (e paraculo) con cui tale pretesa di inclusività è resa totalmente opzionale e nemmeno di default, rende la cosa tutto sommato accettabile.

Certamente più dell’inserimento di donne negli eserciti della seconda guerra mondiale e di neri nelle truppe imperiali tedesche della prima come accaduto in Battlefield 1 e Battlefield V.

Qui la polemica, che a dire il vero si concentrava anche sull’eccessiva pacchianeria di tali truppe, con katane antistoriche e protesi anacronistiche, generò un nugolo di polemiche che le dichiarazioni degli sviluppatori “se non vi piace non compratelo” alimentarono ulteriormente.

Niente però raggiunge le vette di “follia” delle polemiche riguardo Ghost of Tsushima.

Ambientato in Giappone ed apprezzato dagli stessi giapponesi, esso fu criticato in America perché se degli sviluppatori americani si mettono in testa di voler rappresentare un momento della storia giapponese allora si tratta certamente di “appropiazione culturale”. Non fatevi sentire da Salgari. Certamente si starà rivoltando nella tomba.

God [censored] America

Chiudiamo con tutto il filone della censura militare. Naturalmente qualsiasi governo dotato di un po’ di fiuto per i  nuovi media non si è lasciato sfuggire l’enorme impatto che, anche a livello di propaganda, possono avere i videogiochi sull’immaginario collettivo. È un caso che il 99,9% dei FPS di guerra segue a grandi linee la trama USA buoni vs nazisti, comunisti, alieni, terroristi?

Certamente non è un caso. Il videogioco di guerra è assimilabile, per certi versi, al cinema di guerra. Può diventare anche involontariamente un veicolo di determinati valori e determinate rappresentazioni manichee della realtà.

Così quando qualcuno, come gli sviluppatori di Spec OPS: the line, decide di osare e di uscire dal semplice punta-clicca-spara-uccidi il comunista, scoppiano le polemiche.

In particolare riscosse tantissime critiche (ma plausi dagli addetti ai lavoro) la scelta di far utilizzare al giocatore del fosforo bianco (un’arma chimica che brucia a contatto con l’aria) su soldati americani.

Tale utilizzo era perfettamente inserito a livello di trama e contesto, ma ciò nonostante scatenò diverse polemiche.

La stesse che colpirono la missione di Call of Duty Modern Warfare II “No Russian. Una missione in cui dovevi letteralmente uccidere civili in aeroporto. Anche qui, nonostante la missione fosse contestualizzata e utile ai fini della trama, essa fu accolta dall’isteria di massa.

In Russa è stata totalmente cancellata, mentre in altri paesi è stato inserito un disclaimer ad inizio livello.

Recenti sono invece le polemiche su Six Days in Fallujah. Un videogioco che ha subito diversi ritardi nello sviluppo e parecchie polemiche in quanto rischiava di raccontare un momento controverso della storia militare americana.

Ma che, alla fine, ha comunque generato polemiche per il motivo opposto: uscirà, ma rischia di essere un’opera solo dal punto di vista americano.

L’ultima frontiera contro la censura?

Come visto, l’incapacità di considerare i videogiochi come un prodotto adulto e con una propria dignità artistica ha da un lato portato inizialmente essi ad essere considerati prodotto per bambini, ma dall’altro ha comunque permesso agli sviluppatori un certo grado di sperimentazione che il mercato di alte arti non permetteva più.

Negli ultimi anni però l’ideologia (sia quella liberal che quella liberale) e il mercato stanno comunque cercando di imbrigliare il medium videoludico e di renderlo l’ennesima ancella del loro sistema valoriale.

Naturalmente il fatto che la concentrazione tra produzione e distribuzione stia avvenendo con logiche diverse rispetto al cinema e all’audiovisivo in generale, fa ben sperare.

Basti pensare che la compratutto Microsoft garantisce comunque una certa libertà creativa ai suoi studi e aiuta e sostiene, anche economicamente, molti developer indie, mentre le leader del mercato Sony e Nintendo hanno comunque una certa tradizione giapponese di resistenza alle ingerenze nelle opere creative, oltre ad un sistema valoriale diverso da quello dell’occidente liberista e per questo meno “importatore acritico” di puritanesimi Made in California.

Contribuisce quindi, e non poco, ad un quadro leggermente più roseo anche e soprattutto la mancanza di quell’anglocentrismo tipico del cinema o della TV. La stessa Microsoft, come detto, è molto aperta anche ai contributi di studi europei o asiatici. Mentre, oltre ai colossi giapponesi, anche gli europei, con in testa la francese Ubisoft e la polacca CD Projekt, riescono a dire la loro. Per non parlare di coreani e cinesi, nuovi player di livello in questo mercato. E a breve, scommettiamo, ci sarà posto anche per gli indiani.

Insomma, la particolarità con cui produzione e distribuzione stanno coincidendo, la presenza di diversi attori di medio livello sia nello sviluppo che nella distribuzione, ma soprattutto il fatto che il mercato, che sarà in crescita per ancora diversi anni, garantisce nuovi ingressi e l’allontanamento della temuta creazione della torre d’avorio autoreferenziale (cosa accaduta nel cinema, nella letteratura, nella musica) sono tutti fattori che depongono a favore del mezzo videoludico e della sua capacità di resistere ai tentativi di imbrigliamento e censura. Da una parte e dall’altra.